lunedì 13 settembre 2010

Tutto è limpido, questa è l'ora dell'eternità

“Come mai certe volte metti lo zucchero nel caffè ed altre no?”
“Dipende. Dalla sua temperatura: se è freddo o tiepido lo bevo amaro. Se brucia lo prendo dolce. L’espresso del bar non è mai né caldo né freddo, quindi a volte lo zucchero, a volte no.”

Soltanto una tra le mie abitudini. L’ennesima dimostrazione dei fragili equilibri su cui si reggeva tutta la mia vita. Un insieme di pensieri in potenza o di gesti in atto, di certezze da cullare nel silenzio della propria testa, che si incastravano alla perfezione nel caos della mia vita. Combaciavano, si stringevano.
Avevo trovato il posto a tutto. E se ne stavano stretti stretti dentro di me.
Se volevo, potevo aggiungere qualcosa, ma non ero altrettanto sicura che avrei accettato con serenità che qualcosa mi fosse stato tolto. Pensavo che si trattasse proprio di equilibri. Fatichi così tanto a costruirli che, al solo pensiero dell’imprevedibilità della vita, ne esci talmente distrutta da scoppiare in lacrime all’una di notte di uno fra i tanti venerdì sera.

Sono domande che mi sono sempre fatta. E sono abitudini che ho sempre avuto.

Ma è soltanto da un po’ di tempo che mi soffermo ad osservarmi, che faccio caso alla mia gestualità, come se mi osservassi dall’esterno. E mi trovo incredibilmente buffa.
Ho sempre saputo di aver creato degli equilibri e di essermi fatta forza proprio in nome di quelli, ma è soltanto da un po’ di tempo che penso al sapore che potrebbe avere la perdita.
Tutto coincideva con un unico momento. Quello in cui avevo incontrato me stessa sotto le vesti maschili. O quello in cui avevo capito che non valevo, poi, tanto da sola. O quello in cui vidi che avevo, anche io, bisogno di qualcuno.
Io non pensavo certo di poter tornare sui miei passi tutte quelle volte, di pensare una cosa ed accorgermi che stavo già alzando il telefono, pensando l’opposta.
No, non lo pensavo. Non lo speravo. Non lo credevo.
Ed era fatica, è faticoso amare, tanto che, certe volte, quel “vaffanculo” che esce dalla bocca è davvero sincero.

Avevo cominciato a farmi domande, ad osservarmi, ad indagare sulle ragioni che muovevano ogni mio gesto o ogni pensiero, da quel momento lì. Da quando ho dovuto arrendermi all’idea che c’era qualcosa, esisteva qualcuno che valeva più del mio orgoglio. Più della mia indipendenza. Aveva completato un equilibrio e, nonostante la fatica per tenerlo a posto, sapevo che, se tutto si fosse rotto, ne avrei sofferto.
Nell’infinito spazio che occupava ogni mio equilibrio, ogni mia abitudine, tra tutte le paure che nascevano al pensiero della perdita di una qualunque fra le essenze fondamentali per me, pensavo che la più grande fosse proprio questa. Quella di veder scomparire qualcosa che avevo visto nascere, che avevo provato a difendere. Qualcosa che mi rendeva completamente felice, anche quando mi faceva incazzare.
Tutte le mie aspirazioni, le mie speranze o i miei progetti si annullavano di fronte ad un’eventuale scelta.
Sarei stata disposta a scendere a tutti i compromessi del mondo per quelle carezze. Ne valeva la pena, non si trattava di sdolcinerie. Ne valeva la pena perché esisteva qualcosa che poteva calmare le mie paure, asciugare le mie lacrime e farmi ridere mentre piangevo. Mi faceva felice. Mi sembrava così straordinario... Tutto, tutti i miei equilibri tenuti insieme con fatica, fragili, effimeri, dipendevano da qualcosa di ancora più fragile e imprevedibile, come la vita umana. O il carattere di un uomo, il suo capriccio. Il suo amore.Tutto sospeso sul sottile filo dell’amore che provava per me.
E non ne avevo nessuna paura, anzi. Volevo che continuasse ad essere così per sempre.
Ho dato il mio cuore, ho creato equilibri, e non avrei mai voluto averlo indietro.

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